19/12/11

Esoterismo drone-folk


Un capolavoro minimalista - Winter Lady, secondo album in solo per Alicia Merz in arte Birds Of Passage – vede il ritorno alle atmosphere melanconiche e desolate dell’acclamato debutto Without The World. E’ un invito ad entrare in punta di piedi nel suo fragile mondo, un viaggio accattivante attraverso scenari di grande euforia ed agonia, un ulteriore spinta all’innovazione ed alla ricerca con una sigla destinata ad affermarsi nel circuito del drone-pop.

La tendenza a permeare strutture asciutte con figure ripetitive, consente alla nostra di armarsi unicamente di registrazioni sul campo e piccoli strumenti per definire un viaggio audio che fotografa l’inverno stesso. Non mancano certo riferimenti all’ala più colta del dark-pop come a certo classicismo folk da camera.

La capacità di catturare l’immaginazione di un amplio numero di ascoltatori è la chiave di volta in un disco che rappresenta la sua affermazione artistica. Capace di stabilirsi nella stessa categoria di Sigur Ros, Cocteau Twins e Zola Jesus, Winter Lady punta dritto al cuore dell’anima, con i suoi quadretti intimisti che lasciano intravedere una grazia solenne. Registrato da Nils Frahm, che molti conosceranno per i dischi su Erased Tapes, l’abbraccio della Merz è ottenebrante.

Angels Of Darkness/Demons Of Light II


La seconda parte di Angels of Darkness/Demons of Light vede finalmente la luce, a meno di un anno dal primo capitolo di questa emozionante saga che ha riportato prepotentemente in auge il suono country-doom dei mercanti del Northwest. Registrato nelle stesse due settimane del primo paragrafo da Stuart Hallerman e masterizzato da Mell Detmer, il disco espande se possibile la vena free folk del gruppo, prestando fede ad una chiave cameristica. Ancora una volta la presa diretta ha aiutato a sviluppare liberamente le idee, nella ricerca di una spontaneità mai messa a repentaglio.

Angels Of Darkness/Demons Of Light II è sorprendente per molti versi, non ultimo per il tenore improvvisativo del disco. Brani come 'Sigil Of Brass' e 'The Corascene Dog' enfatizzano perfettamente l’interplay del quartetto, ancor più sublime rispetto al capitolo precedente. Tutto questo mentre 'His Teeth Did Brightly Shine' punta ancora una volta verso il fok acido inglese, riscoprendo il dinamismo lisergico di un’intera generazione. Ed è come se una brezza di fiducia soffiasse sul disco, lasciando pensare ad una progressione meno oscura e mortifera. Un ritrovato Dylan Carlson dunque, che ha imparato a convivere con i suoi fantasmi ed ha ritrovato la luce nella sua stessa arte.

Assieme al leader ritroviamo Adrienne Davies (batteria e percussioni), Lori Goldston (Nirvana, David Byrne, Black Cat Orchestra, Laura Veirs) al violoncello e Karl Blau (K Records, Laura Veirs, Microphones) al basso. Folgorati nuovamente dall’artwork di Stacey Rozich, siamo certi che questo inverno dell’anima sarà meno rigido.

Il delitto pop perfetto, da Sunderland


Sul senso ultimo di indie-pop i Field Music (nome d’arte dietro al quale si celano i fratelli Peter e David Brewis da Sunderland, Inghilterra) hanno costruito un’intera carriera, mettendo a segno con il nuovo Plumb – pubblicato da Memphis Industries – la stoccata vincente. Lavorando al pari di una piccola orchestra i due utilizzano lo studio di registrazione a proprio piacimento, lanciandosi in questo quarto album nella costruzione di anthem spaziali, che sembrano divorare decenni di musiche d’autore dalla costa ovest degli Stati Uniti a Liverpool, passando per le stazioni FM rock americane più patinate. Ce n’è voluto di tempo per mettere insieme questa opera, nei suoi minimi particolari si scopre il gusto per arrangiamenti sofisticati, una scrittura di quelle raffinate che non lasciano spazio ad alcuna indecisione strategica.

Registrato nel corso del 2011 presso il loro multifunzionale studio sulle rive del Wear a Sunderland, il disco si compone di 15 canzoni, succinte nella durata, a rispettare quel formato radiofonico che per anni è stato cruccio di tutte le imprese discografiche che si rispettino. In appena 35 minuti si raccoglie una filosofia di vita, tanto che le canzoni di Field Music assumono spesso i toni del diario giornaliero, con titoli come paragrafi speciali. ‘Start The Day Right’. ‘ A New Town’, ‘Who’ll Pay The Bills?’, ‘Ce Soir’, come a sfogliare pagine di un registro personale. Si torna all’essenzialità ed alla quotidianità della musica pop, con pagine quotidiane che ben si amalgamano a composizioni di grandissima presa.

Perfezionisti, possiamo fotografarli in questi termini inediti. I Brewis appartengono a quella stessa lega di fenomeni contemporanei come Eels o Beta Band. Ma le origini di questo suono sono forse da scorgersi nei passi post-pubertà dei fab-four, negli oceani infiniti dei Beach Boys e nel mare magnum dell’Electric Light Orchestra. Mai il classicismo è parso così moderno.

Una delle eroine dell'r&b di nuovo tra noi


Un talento straordinario della musica nera è di nuovo tra noi, una delle voci più distinte dell’epopea r&b, una delle protagoniste del soul funk dei ’70 ad un passo dalla rivoluzione disco. Betty Wright incrocia la strada del rinnovamento unendo le forze con una delle istituizioni della black contemporanea: i Roots, un biglietto da visita di per sè sensazionale, potendo solamente immaginare i ‘numeri’ di questa collaborazione.

"Betty Wright: The Movie" rispetta in toto le attese, servendo offrendo 14 primizie soul-funk che hanno il passo e le caratteristiche degli anthem moderni, rispettando le consegne della ‘storia’. I brani sono stati scritti e prodotti a sei mani dalla stessa Betty con il batterista Ahimir "Questlove" Thompson dei Roots ed Angelo Morris. Come se tali garanzie non fossero sufficienti anche gli ospiti hanno dei tratti ‘somatici’ importanti. Due stelle del firmamento hip-hop, due ragazzi terribili come Lil Wayne e Snoop Dogg mettono ulteriore pepe nell’album, mentre l’intervento della talentuosa Joss Stone è quasi un omaggio in termini ad una delle sue figure ispiratrici.

Della Wright si è parlato troppo poco negli annali della musica nera. Un talento naturale il suo, sembra addirittura che questa eroina del funk abbia iniziato a cantare in tenerissima età, praticamente appena iniziò a muovere i primi passi.

Il suo primo singolo arrivò all’età di 13 anni – quando la parabola degli anni sessanta volgeva al termine - mentre la prima hit si concretizzò a 19 con "Clean Up Woman" , che segno il passò con uno stile già deciso. L’inizio di una scalata decisa con qualcosa come 15 nominations ai Grammy. La Wright ha raccolto oltre trenta top hits, battendo un record personale con la sua personale etichetta Ms. B Records e l’album disco del 1988 Mother Wit, primo disco d’oro indipendente ‘autoprodotto’ al femminile.

Le canzoni di Betty sono state campionate a destra e manca: alcuni celebri break si ritrovano nelle produzioni di Afrika Bambaataa, Color Me Badd, Lauren Hill, Tupac Shakur e Snoop Dogg. La Wright ha suonato con tutti i mammasantissima dell ‘universo black, da James Brown a Bob Marley, ed ha prestato le sue doti canore a Stevie Wonder e Michael Jackson. E’ stata mentore e produttrice vocale per Gloria Estefan, Joss Stone e finanche Beyonce, fino ad approdare agli studi televisivi di MTV nel ruolo di vocal coach nella serie a tema condotta da P Diddy a titolo "Making The Band”. Questa è la sua prima registrazione da studio da 10 anni a questa parte ed è ancora un distillato di pura magia.

16/12/11

Dalle Hawaii nuova sensazione in casa Easy Star



Quattro talenti straordinari, quattro ragazzi provenienti dalle Hawaii e già protagonisti di un album di debutto da antologia. Finiti nella reggae top ten di Billboard nel 2010, i nostri furono anche onorati con l’ iTunes’ Reggae Album of the Year. Con 20mila copie vendute The Green hanno stabilito un bel primato, pronti a ripetersi con l’opera prima per la newyorkese Easy Star: Ways & Means.

Partendo dall’assunto che la loro musica debba essere accessibile a tutte le età, il chitarrista/cantante Zion Thompson ci tiene a mantenere un approccio fluido, identificabile, senza mai prescindere dal groove e dalla melodia, che spesso si tinge anche di influssi pop naturalmente occidentali.


Il tratto saliente dei Green corrisponde all’utilizzo della voce, lo strumento che tutti e quattro i membri condividono, spesso anche all’unisono. Una gamma di possibilità maggiore quindi, per armonizzare una miscela di per sè solare. Caleb Keolanui e JP Kennedy sono cugini di primi grado che si sono fatti le ossa nella band Next Generation. La sensibilità pop/dancehall dei due contribuisce a canzoni tanto sofisticate quanto irresistibili come “Decisions” e “Love & Affection”, con un calore raro.

A chiudere il quadro il feeling soul e blues del chitarrista JP Kennedy, un musicista navigato che contribuisce a rifinire la consciousness dei Green con interventi magistrali. Pur spingendosi oltre gli steccati del genere, i ragazzi riescono comunque a rievocare le buone vibrazioni classiche di Third World e Steel Pulse in canzoni come “Jah Love” e “Travlah”.

Ad ampliare la formazione Ikaika Antone e Zion Thompson, direttamente dalla band Stir Crazy. Con la produzione assistita di Danny Kalb (Ben Harper), Michael Goldwasser (Easy Star All-Stars) e Jim Fox (Rebelution, SOJA, Israel Vibration) il messaggio dei Green sta per essere sdoganato ai fruitori di black music ad ogni latitudine.

15/12/11

Il soul-rock di Phenomenal Handclap Band

Ai Phenomenal Handclap Band piace da morire il Tullio De Piscopo di ‘Stop Bajon’ . Del resto l’italo disco ha sempre permeato profondamente la mappatura della club culture newyorkese. I conti tornano con ‘Form & Control’ loro secondo album, dopo un esordio che aveva lasciato molti a bocca aperta. Un disco apertamente più dedito al dancefloor, con un groove febbrile in grado di provocare forti giramenti di testa.

Salutati trionfalmente dal New Musical Express ai tempi del debutto omonimo – si facevano I nomi di Sly & The Family Stone e Tom Tom Club – i sei newyorkesi si iscrivono in quella school of fame che sin dai ’70 ha prodotto piccoli e grandi talenti.

Onnivori, questo è un dato di fatto. Tra i solchi di ‘Form & Control’ prende vita una musicalità fresca, gioviale, in cui il rock da radiolina si incastona nei labirinti del ritmo, per una nuova stagione del funk bianco. ‘The Right One’ e ‘The Unknown Faces At Father James Park’ sono gli indizi che portano alla soluzione del giallo. I Phenomenal Handclap Band sono oggi il corrispettivo dei gruppi soul-rock dei seventies, da Sly Stone ai Rotary Connection, passando magari per Creative Source ed Undisputed Truth.

Nel mezzo c’è stata ovviamente la disco ed il pop più sbarazzino, altri elementi che oggi sono parte di un disegno più ampio. Pronti ad aprire una serie di date per il signorile Bryan Ferry, Sean Marquand e Daniel Collas (produttori anche del nuovo disco per Tummy Touch), sono destinati a trasportare la squadra al trionfo, e se piove di quel che tuona ‘Form & Control’ è destinato ad allargar i l confine dei loro estimatori.

Anche l'ex-Red Hot Chili Peppers Frusciante nel disco della sensazione losangelena


Quello che era un sospetto presto diviene certezza, quando tra i credits dell’album scorriamo il nome di Viv Albertine delle Raincoats. Il balletto psycho-tropicale di Swahili Blonde ha come centro di gravità Los Angeles, ma la scena madre sembra svolgersi in un sobborgo inglese dei primi ’80, tanto evidenti i punti di comunione con le Slits della compianta Ari Up e le stesse Raincoats.

All’altezza del secondo album, incrociando wave, dub e finanche kraut rock, la batterista/cantante Nicole Turley ha trovato un equilibrio quasi scientifico tra l’attitudine possibilista del post-punk e la rivoluzione ritmica della musica jamaicana.

Gli Swahili Blonde sono presto divenuti un gruppo spettacolare, una reputazione guadagnata grazie alla dinamica dei loro concerti. Un ensemble che pur girando attorno alla figura di un’ eclettica leader, ha goduto dei servigi di quel celebre chitarrista uscito dal gruppo (John Frusciante) e membri assortiti di The Like, Dante Vs Zombies, Corridor, Weave! e finanche Devo. Psycho Tropical Ballet Pink è ricco di influenze caraibiche, armonie vocali scippate al doo-wop ed una cura strumentale che ha del prodigioso.

Il funk angolare di "Zelda Has It" ha tutta la classe delle più algide produzioni Factory, mentre la cover di "Scoundrel Days" degli A-Ha folgora con il suo fascino pop remoto. "Purple Ink" suggerisce un approccio alla Cpt. Beefheart, anche se più in generale le figure ritmiche evocate dai nostri odorano di dance underground. Roba stile 99 Records, con il minimalismo delle ESG quasi a contrastare il quadro dei riferimenti british. Le ospitate di Laena Geronimo (violino), Brad Caulkins (sax) ed ancora John Frusciante (chitarra), sono una garanzia sul risultato finale. Preparate gli occhiali da sole e la crema solare, si salpa alla volta di destinazioni esotiche.

Il collettivo Elephant 6 continua ad entusiasmare


Syd Barrett, Julian Cope, Jason Pierce e la supervisione psicotropa di John Sinclair. Non è un kolossal hollywoodiano, ma poco ci manca. Una rivoluzione americana, sottopelle, perchè le manifestazioni di massa ed il ’69 sono roba d’archivio. Robert Schneider – altrimenti noto per essere il frontman di Apples in Stereo e produttore occasionale per Neutral Milk Hotel – ha messo in piedi questo rumoroso tee pee, dove tra fumi lisergici e vecchi ritrovati di medicina indiana, va in scena uno di quei party fuorilegge che tanto piacevano ai giovani rivoluzionari della Motor City. "Buddha Electrostorm" è quello spazio dedicato tra sacro e profano, tra fuga metropolitana e sommari disegni sovversivi.

Originariamente pubblicato da Garden Gate Records/Elephant 6 Recording Co. nel 2009, il disco ha talmente folgorato i tizi di Fire da improntare una ristampa e distribuzione europea sul finire di questo anno. Schneider, figlio proprio dello stesso collettivo che ha dato i natali ad Olivia Tremor Control, Neutral Milk Hotel e Magnetic Fields, si insinua nel solco di una nuova tradizione psichedelica, oggi nuovamente protagonista delle cronache indipendenti. Non a caso Jeff Magnum di Neutral Milk Hotel sarà il curatore del prossimo ATP inglese, nel Somerset, occasione in cui andrà in scena il circo di Thee American Revolution. Con il puntuale supporto del cognato Craig Morris (Ideal Free Distribution), di Bill Doss (Olivia Tremor Control) e la direzione spontanea del misterioso musicista inglese dei sixties Wm. Shears, i nostri dipingono la loro rivoluzione fatta di chitarre fuzz e ritornelli stranianti, per un trip capace di far trasalire ogni buon cultore della triade Velvet/MC5/Spacemen 3.

Con titoli piuttosto espliciti come ‘Blow My Mind’, ‘Saturn Daze’ e ‘Sleepwalker’ non mancano davvero i momenti chiave in questo disco, forse il miglior acid rock ascoltato da diversi mesi a questa parte. Turn On, Tune In, Drop Out!

14/12/11

Dalla Finlandia con amore


Inafferrabili, con una sola parola possiamo fotografare i Pepe Deluxe, al secolo la creatura del finlandese Jari Salo – in arte James Spectrum – e del sodale Paul Malmström, prodigioso polistrumentista con residenza a Manhattan, New York. Coppia chimicamente vincente.

A quattro anni dal precedente 'Spare Time Machine', sempre edito da Catskills (in America esce per la prestigiosa Asthmatic Kitty), Pepe Deluxe realizzano il loro titolo più ambizioso, con quello che sin dalle note di copertina si presenta come un’esoterica opera pop in 3 parti. La regina delle onde in questo caso è una pin up d’altri tempi che si fa largo tra i flutti con aria sbarazzina, quasi ad evocare l’immaginario tropicale dell’album.

Una cosa va detta di questo Queen Of The Wave, sembra che il duo abbia reciso nettamente i ponti con la club culture incamerando solo piccoli elementi di musica da ballo su un tessuto decisamente più rock, lisergico. L’apertura con la title track è il preludio a questo cambio deciso, l’ingresso in una macchina del tempo che dice di bucoliche tenute britanniche e di qualche fiore raccolto sulla costa Ovest degli Stati Uniti. Un’atmosfera pacata su una struttura comunque progressiva.

Più decise A Night And A Day, che sembra un funk mutante con vezzo hard, mentre Go Supersonic è forse l’episodio più vicino al recente passato, un big beat di quelli da antologia, che non avrebbe affatto sfigurato su un disco di Fatboy Slim o addirittura di Pizzicato 5.

Ma non c’è sosta, chiusa la prima parte dell’opera i nostri entrano con la successiva cinquina in un emisfero della mente ancor più sfuggevole. Fatto di ballate liquide ed arrangiamenti magistrali, dall’operetta rock alla big band miniaturizzata di Hesperus Garden, che non so perché, ma fa molto John Barry.

E – a dirvela tutta- anche Tarantino potrebbe perdere la testa per l’ultima sezione del disco, un poker di brani anche qui luminescente. Su tutto gli arrangiamenti fiatistici di The Storm, storia della cinematografia in musica ed una dose di epicità a cui certo non si può resistere.

Una visione ambiziosa realizzata anche con l’apporto decisivo di musicisti prestigiosi come Samuli Kosminen dei Múm, un batterista metal di tutto rispetto - Kai Hahto (Rotten Sound ed altro) - ArcAttack con il loro sintetizzatore Tesla, la Czech Film Orchestra ed una pletora di voci dal background diversissimo. Il gruppo vocale Club For Five, la cantante d’opera Kirsi Thum, l’attrice Sara Welling (che ha lavorato ad una revisione dell’animè giapponese Moomins, tratta dall’omonimo racconto del finlandese Tove Jansson), il rocker australiano Boi Crompton ed il bostoniano Chris Cote della band The Upper Crust (risposta d’oltreoceano ai Darkness).

Gli autori ci rivelano che il disco è ispirato al romanzo fantascientifico del 19simo secolo “ A Dweller Of Two Planets”, mentre ai patiti etno-musicologi, farà piacere ascoltare l’enorme Stalacpipe Organ, strumento di culto che dice di un attaccamento alla cultura vintage benevolmente radicale.

13/12/11

I pionieri del pop orchestrale di nuovo insieme


Northern Soul potrebbe essere un indizio. In realtà il pop dei Cardinal è stato sempre declinato spulciando tra le pieghe dell’anima e gli inni in punta di piedi che hanno preparato per questo 2012 hanno tutto l’aspetto di delicati manicaretti concepiti nottetempo. Considerati come l’epitome del pop cameristico, Richard Davies ed Eric Matthews hanno deciso di rispolverare la sigla per creare l’ennesimo ponte immaginifico tra Beatles e Belle & Sebastian, passando dalle parti dei Bee Gees flower-pop degli esordi. Nel momento del loro esordio risalente al 1994 - e successivamente ristampato da Gern Blandsten negli anni zero – i nostri anticiparono letteralmente i tempi grazie ad intuizioni orchestrali che avrebbero fatto insospettabili proseliti negli anni a venire.

Da Elliott Smith a The Last Shadow Puppets la loro sottile influenza è un dato di fatto per le legioni degli indie-rockers 2.0. Nonostante la brillantezza e l’impianto così sofisticato non fu certo un roboante successo di vendite ad investire il gruppo. Matthews fece i bagagli alla volta della costa occidentale (i suoi primi album in solo per Sub Pop sono sicuramente da rivalutare), mentre Davies rimase piantato ad oriente.

Sembrava non aver seguito la loro unica avventura discografica, eppure dopo un intenso scambio telematico i due iniziano a valutare l’idea di una collaborazione a distanza, che si concretizza nel 2011 con una serie di brani che vanno a completare il nuovo album.

12 pezzi che tengono a battesimo una risurrezione, officiata dalla solerte Fire Records. Da piccoli capolavori di gentilezza come ‘Kal’ a grezzi diamanti come’Carbolic Smoke Ball’ è tutto un rifiorire di antichi sentimenti. Il gusto ornamentale dei due non è mai prolisso ed anzi tradisce una maestria nel songwriting che è cosa rara di questi tempi. Non solo voci e chitarre, ma anche percussioni sottili, fiati ed archi a perorare una visione giustamente old-fashioned. Se erano dei marziani del pop nel 1994 oggi sembrano i dominatori di un universo parallelo fatto di mille accortezze sonore. Ben ritrovati!

A febbraio il nuovo album di Of Montreal


L’uscita di Paralytic Stalks è prevista per il 7 di febbraio ed al solito il lancio promozionale degli Of Montreal assomiglia sempre più ad una sfilata sul red carpet, tanta l’enfasi con cui viene notificata ogni loro sortita ufficiale. Un gruppo che ha fatto del glamour una ragione di vita, uscendo dal grigiore indie americano grazie ad un immagine prepotente e ad una comunicazione decisa.

Una propaganda che assume i toni della pianificazione mondiale, ora che il nuovo disco verrà pubblicato da Contrarede Records in Giappone e Baram Records in Korea. Prodotto da Kevin Barnes presso il personale Sunlandic Studios di Athens, Georgia e mixato al Chase Park Transduction dall’ingegnere del suono Drew Vandenberg (Deerhunter, Toro y Moi) il disco prende le forme di un viaggio lisergico nelle terre del pop d’autore, senza mai tralasciare una vena piuttosto eclettica e quelle polaroid da FM, che spesso hanno fatto capolini negli album dei nostri.

Barnes, che è anche il principale songwriter del gruppo, è tipo ambizioso ed il suo modo di intendere la musica è simile a quello di un architetto, rispecchiando in questo il desiderio per concept affatto formali. Paralytic Stalks è così denso di idee da sfiorare la completezza delle opere chiave dei seventies. O dei sessanta se preferite. E permetteteci di fare dei nomi altisonanti, dai Beatles di Sgt. Pepper ai Pink Floyd di Animals passando per i Beach Boys di Smile. Mai un disco degli Of Montreal è stato in precedenza capace di mettere insieme i tanti pezzi del mosaico, sublimando un’idea di completezza e fluidità cara solo alle menti illuminate del nostro tempo.

Dopo l’addizione della violinista classica Kishi Bashi, Barnes ha abbracciato l’idea di lavorare con un manipolo di sessionmen (introdotti dalla stessa Bashi) per la prima volta in carriera. Particolare il rapporto con Zachary Cowell responsabile per gli arrangiamenti di fiati ed ottoni del disco. Esperienza che oltre a coinvolgerlo a tempo pieno nel gruppo ha schiuso anche nuovi orizzonti musicali al leader Barnes

Il risultato è qualcosa di fenomenale. Un album spartiacque che non lascia adito a dubbi sulla genuinità e genialità del gruppo, che celebra un’estasi sonora fuori dal tempo, macinando elementi progressive in salsa alternative country ed orchestral-pop. Un rifugio degli Dei Paralytic Stalks, la dimensione definitiva per le aspirazioni supreme di Barnes.

23/11/11

Progetto multimediale per Oval


DNA è una montagna di album per usare un eufemismo: un cd audio con 25 tracce, una media-brano di 3 minuti. Praticamente una collezione di incisioni rare e 12 episodi completamente inediti. Una delle rappresentazioni più eclettiche del genio musicale tedesco Markus Popp, percorso a tappe tra le sue varie fasi creative. Materia vecchia e nuova omogeneizzata da un comun denominatore. Concepito originariamente prima della pubblicazione di “O” per Thrill Jockey, “DNA” ha il compito di fotografare una dipartita, sulla carta ultimo contributo proprio alla ‘causa’ elettronica.

Imperdibile a proposito il secondo cd di DNA, sorta di manifesto per le risorse aperte. Dal SoundBrowser/Sequenzer-Software OvalDNA agli oltre 2,000 Oval Sounds ricavati da file AIFF individuali. Software e files sonori destinati ai produttori più lungimiranti, disponibili senza alcun vicolo di copyright. Nel packaging anche la documentazione video di PlayGroundTV/Madrid, il clip musicale di “Glass UFO” griffato AmberleyProductions/Berlin e 10 tracce bonus in formato WAV. Per quanto sia lecito descrivere l’opera di Popp, presto o tardi finiremmo per parlare di processi organizzativi. Termini come ‘tessuti’ o ‘mosaici’ sembrano infatti più appropriati a sintetizzare il suo lavoro. Tutto qui sembra ondulare, pulsare e respirare, aldilà di una rigida organizzazione. L’infiltrazione del dna umano sa essere ‘tossica’ e coinvolgente, anche in un’austera costruzione digitale. E’ la sintesi di eventi simultanei, incredibilmente densi ed allo stesso tempo segretamente luminosi. Senza mai trascurare una ricca espressività, che certo non rinuncia a figure ritmiche e a momenti di grande armonia. Come se questa impalcatura considerasse imprescindibile l’estasi ‘melodica’

Tra i più avanzati ‘ricercatori’ contemporanei, Popp ha associato il suo nome a quello di Microstoria (con Jan St. Werner dei Mouse On Mars) e So (con Eriko Toyoda). Spesso ha distribuito il suo sapere (nel ruolo di produttore e remixer) ad artisti di primissimo piano come Bjork, Ryuichi Sakamoto, Tortoise, Gastr Del Sol (suoi i pop-up elettronici nel sottovalutato Camoufleur), Jim O’ Rourke e Pizzicato 5. Oval rimane una figura a tutto tondo dell’universo sperimentale, uno scienziato del suono, un ingegnere dalle doti incommensurabili.

Raccolta di singoli per la 'chiacchierata' band di Sheffield


In attesa di un tour europeo di proporzioni epiche, a partire dalla fine del 2011, gli inglesi Black Spiders - a poca distanza dall' album di debutto - decide di assemblare una collezione di brani con singoli ed inediti (più un dvd con tre videoclip esclusivi) che sarà sicuramente un viatico alla nuova vibrante esperienza live. Numerosi i vip che si sono espressi in favore di questi bad boys del contemporaneo hard, a partire dall’ ex-bassista dei Guns'n'Roses Duff McKagan, personaggio non proprio avulso alle cronache del rock’n’roll.

Ancora al grido di ‘orfani dei Darkness unitevi’ la terra d’Albione può così celebrare un fenomeno di portata internazionale. Il gruppo di Sheffield che già aveva impressionato con il debutto lungo "Sons Of The North" continua a cavalcare le scellerate lande che furono un tempo dei death-rockers norvegesi Turbonegro, ma anche delle bandiere australiane AC/DC. Le apparizione al Sonisphere, all’High Voltage, al Bloodstock ed al carrozzone dell’OzzFest valgono per loro più di ogni rassicurante raccomandazione. Il lato più selvaggio dei seventies è ancora oggi la merce di scambio più richiesta.

La sospirata reunion dei Guided By Voices


Torna la formazione originale dei Guided By Voices con “Let's Go Eat The Factory” primo album a comprendere nuovo materiale da 15 anni a questa parte.


Robert Pollard, Tobin Sprout, Mitch Mitchell, Greg Demos e Kevin Fennell si ritrovano per una reunion di quelle memorabili, che attraverso un album di 21 brani riafferma il loro stile, tra i più imitati nel giro indie americano. Secondo le parole del più carismatico Robert Pollard si tratta di un ritorno all’approccio "semi-collegiale" di album simbolo come “Bee Thousand” ed “Alien Lanes”.

Coerentemente a quello che è il loro stile “Let's Go Eat The Factory”, offre un suono variegato, in cui l’alternanza tra distinte melodie pop e ruggiti chitarristici è lo strumento per tornare a sperare in un ruolo di punta del rock indipendente, anche nel 2012, l’anno delle grandi catastrofi annunciate. Il disco è l’immediata conseguenza di un tour che nelle parole di Pollard non avrebbe dovuto generare alcun progetto da studio.

Ma evidentemente qualcosa ha sconvolto i piani dei cinque, che sobillati dalla solita cricca dell’ATP (per chi ne ha facoltà, imperdibile la loro partecipazione al festival I’ll Be Your Mirror, a Londra sul finire di maggio) decide di dare un seguito ad una discografia di per sè nutrita.

Tutto questo seguendo una precisa logica. Tanto forte l’amalgama dal vivo che sarebbe stato un peccato imperdonabile non trovare un corrispettivo in sala d’incisione.

Con brani che reclamano già un ruolo di primo piano tra i classici della band – scegliamo nel muccchio "Chocolate Boy," "We Won't Apologize For The Human Race" (che Tobin Sprout descrive come Peter Gabriel alle prese con 'I Am The Walrus') e "Doughnut For A Snowman” – l’album sarà uno dei piccoli/grandi eventi di inizio anno. Per chi cerca ancora un intrattenimento fedele alla linea.

Thee Oh Sees - Carrion Crawler / The Dream

Non parlateci di revival per cortesia, non tanto perchè i figliastri sono spesso più bravi dei relativi patrigni, ma perché nel caso dei californiani Thee Oh Sees, ogni regola scritta è prontamente sconfessata. Prolifici come non mai, a meno di un anno dal precedente “Castlemania” per In The Red’ decidono che è tempo di rifarsi sotto con “Carrion Crawler / The Dream”, originariamente una coppia di Ep che vanno in realtà a costituire un nuovo agguerrito album da studio. Che conserva però tutta la loro epica live, essendo registrato in presa diretta e senza overdubs. E’ il volto più autentico del gruppo, guidato dal famelico John Dwyer, icona rock’n’roll del secolo prossimo venturo, mai schiavo di una nomenclatura od un’estetica troppo severa. Thee Oh Sees hanno allargato nel frattempo la loro famiglia: alla tastierista/cantante Brigid Dawson, al chitarrista Petey Dammit, allo straordinario batterista Mike Shoun si è ora aggiunto il polistrumentista/cantante Lars Finberg.

Per una “The Dream” destinata a far saltare i coni del vostro impianto, c’è l’organo bruciato dal sole di “Crack in Your Eye” e lo strumentale spaziale “Chem-Farmer”, tanto per dire di una scrittura che si fa sempre più articolata e scevra da compromessi. Sono la più atipica garage band in circolazione i Thee Oh Sees, raccolgono scorie della misconosciuta psichedelia americana dei sixties, prendono in prestito frasi dal beat, agguantano scenari space-rock per il rotto della cuffia. Un calderone insomma, di quelli pronti ad esplodere. Ma una cosa è certa, se li vedrete dal vivo ve ne innamorerete.

21/11/11

Mint Julep, la purezza del dream pop in salsa elettronica


Nati a Boston, Massachusetts, nel 2007, i Mint Julep sono la coppia di coniugi Keith ed Hollie Kenniff. Spostatisi in rapida successione a Portland, Oregon, i due mettono in scena la loro prima creazione dream-pop, con l’autoproduzione Songs About Snow, che nel 2008 già pone le basi per un seguito da vera e propria cult-band. Con Save Your Season, prodotto da Village Green, ci sono tutti gli elementi per aspirare a un ruolo di punta in questa parte finale del 2011.

Una vocazione per le composizioni strumentali avvicina la musica di Mint Julep ad atmosphere necessariamente cinematiche. Ereditando la cifra sonora delle migliori compagini shoegaze, i nostri alternano le saturazioni elettriche ad algidi interventi elettronici, frutto di una condivisibile passione per i grandi interpreti tedeschi dei ’70. E’ così una drum machine o la coda di un sintetizzatore analogico a rendere ancor più ammaliante questa nuova pubblicazione. Che nella fattispecie rappresenta una dipartita per Keith, dalle più rigide prospettive ambient dei suoi lavori solisti. Non a caso il nostro si può fregiare di una prestigiosa collaborazione con Ryuichi Sakamoto, in un pezzo destinato ad una raccolta benefit – patrocinata dall’organizzazione Kizunaworld - a sostegno delle vittime dello tsunami giapponese

Compositore ricercato Keith, tanto che un suo contributo è stato utilizzato nella recente campagna per la promozione del nuovo Apple 4S Siri, ha così trasposto le sue più chiare influenze in un contesto orientativamente più indie, allargando idealmente i suoi trascorsi artistici. Autore di lavori mozzafiato con il monicker di Helios – di cui consigliamo vivamente i dischi per Type – e Goldmund – a breve il ritorno su Western Vinyl, ancora all’insegna di un sobrio neo-classicismo – Keith è così il prototipo del musicista eclettico contemporaneo, affatto insensibile al fascino del pop.

Le meraviglie ultraterrene di Save Your Season saranno l’accompagnamento ideale a questo finale di stagione.

Extra Classic, nuova sensazione da San Francisco


Di loro Pitchfork ha scritto: provate ad immaginare un Lee Perry ai controlli affiancato da Siouxsie Sioux alla voce. Come indicazione di massima ci siamo, perché le ostili acque della baia di San Francisco si trasformano temporaneamente in un asilo a calde correnti caraibiche.

Il gruppo – costituito da ex-membri di The Donkeys, Fruit Bats e The Anniversary – porta in dote le precedenti esperienze, invero allergiche alle più fruibili istanze dell’indie-pop. Lanciati da Paul Beahan – proprietario del marchio Manimal Vinyl (Warpaint, Sister Crayon, Rainbow Arabia) - i nostri si avventurano in una boccaccesca giungla jamaicana, facendosi largo tra camere d’eco ricavate in economia e rigogliosi ritmi in levare. Prestando fede all’estetica vintage dei grandi producer dell’isola registrano su un 8 tracce, utilizzando un equipaggiamento rigorosamente sessanta/settanta.

Gli Extra Classic con il debutto lungo 'Your Light Like White Lightning, Your Light Like A Laser Beam' puntano direttamente al cuore della questione, conquistandoci con un manipolo di canzoni che del post-punk inglese ereditano la vena più nera. Impossibile non scorgere nel dna dei californiani le movenze delle Slits prodotte da Dennis Bovell, che ad oggi rimangono un riferimento imprescindibile per chi vuole far collidere gli umori della nuova onda con lo spirito della black.


Musicisti navigati, con le rispettive formazioni hanno girato con mostri sacri quali Modest Mouse, The Handsome Furs e Conor Oberst/Bright Eyes, gli Extra Classic ci avvolgono nelle spire di un suono che al momento del loro debutto appare come una delle più credibili contaminazioni tra ritmi esotici e savoir faire occidentale. Se già i concittadini Peaking Lights si sono ricavati un ruolo di tutto rispetto nella giostra mediatica contemporanea, grazie alle benedizioni di Simon Reynolds e Gilles Peterson - siamo certi che la stella degli Extra Classic sarà la prossima a brillare in maniera definitiva.

16/11/11

Il debutto dei salentini Bundamove


I Bundamove prendono vita nel dicembre 2009, con la finalità di rivedere i tratti salienti della musica nera attraverso un deciso battito funk ed una serie di groove decisi che riportano alle sonorità ed all’estetica dei tardi sessanta/primi settanta. Un sestetto che può contare sui singoli talenti di

Emanuele "Manufunk" Pagliara (chitarra), Marco "donSkal" Calabrese (tastiere), Michele “Mike”

Minerva (basso) , Antonio "Dema" De Marianis (battteria), Alessandro Nocco (sax) e Gabriele Blandini

(tromba), i cui trascorsi musicali parlano chiaro: dalle fila degli Aretuska - capitananti da Roy Paci - al fenomenale combo reggae-dub Boom Da Bash, fino all’esperienze con Anansi e Steela (dentro il vortice dubstep).

Il fine è nello sconvolgere le regole, rivedendo in chiave adrenalinica classici della musica popolare, sia essa di declinazione crossover, reggae o storicamente rock. Grazie ad un’esplosiva vena funk, il gruppo si assesta nel solco proprio di quei rare grooves, che immancabilmente hanno arricchito le valigie dei dj di mezzo mondo. Una musica dalle spiccate prospettive danzerecce, una miscela dirompente che attraverso speziati arrangiamenti consente di liberare un energia vitale.

Dopo aver battuto in lungo e in largo la penisola i sei salentini pubblicano l’album di debutto “Da Funk Machine” – distribuito in esclusiva da Goodfellas - uno squarcio solare nell’imminente stagione invernale. Dalla rilettura in salsa acid-jazz del classico dei Doors Roadhouse Blues – loro primo singolo, qui prontamente ribattezzato Roadhouse Funk – all’essenziale groove di basso di Money dei Pink Floyd, qui rinvigorita dal lavoro di cesello dei fiati. Il beat in levare di Bob Marley I Shot The Sheriff fa da contraltare alle ficcanti rivisitazioni di Bulls On Parade e Killing In The Name dei californiani Rage Against The Machine. L’altro pezzo forte – corredato da clip video – è Smooth Criminal di Michael Jackson, il cui ritmo ossessivo è già uno dei punti di forza del disco. Detto di una puntuale With My Own Two Hands di Ben Harper il disco si chiude con l’unica traccia cantata – da Marta De Giuseppe – una Whole Lotta Love dei Led Zeppelin che sembra davvero un ordigno ad orologeria, con quelle sue figure ritmiche e quei break mozzafiato. Da Funk Machine è esattamente quello che il titolo promette, un campionario di moderna musica da ballo.

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15/11/11

Il network di Damo Suzuki esordisce su disco


"Sette Modi Per Salvare Roma" - con il suo titolo quasi profetico - è una delle più riuscite avventure del fantomatico Damo Suzuki’s Network, una formazione che viene plasmata a seconda degli appuntamenti dal suo stesso tenutario e frontman, nonché voce dei leggendari kraut-rockers Can.

Il cantante di origine nipponica corona così il suo vagabondare artistico con una formazione finalmente stabile. La finalità stessa del network ha permesso al nostro di mettere radici in più paesi europei e statunitensi, a partire dalla fine degli anni ’80. Singolare la sua stessa storia personale, il continuo girovagare per club e location internazionali ha in qualche maniera sopperito alla mancanza di una vera e propria dimora.

Spesso ‘imprendibile’, il progetto assume contorni definiti con la pubblicazione di un live ufficiale, che Goodfellas è lieta di presentare in tutta la sua spontanea natura. Registrato dal vivo al Circolo Degli Artisti di Roma il 20 gennaio del 2011, il disco è l’occasione per immortalare l’incontro di Damo con alcuni dei migliori musicisti italiani. Il collettivo in azione è infatti uno dei più nobili: Manuel Agnelli (Afterhours) Enrico Gabrielli (Calibro 35, Afterhours), Xabier Iriondo (Afterhours, A Short Apnea, Uncode Duello) e Cristiano Calcagnile (Stefano Bollani, Cristina Dona’) costituiscono l’ossatura su cui regge questa versione del network. Su un tappeto cangiante, per definizione rock ma non scevro da influssi lisergici e avanguardisti, Damo libera le sue capacità comunicative, stimolato a dovere da questo eccezionale quartetto.

Le date del tour

06/12/2011 - Marina Di Massa (Ms) - Tago Mago

07/12/2011 - Colle Val D'Elsa (Si) - Sonar

08/12/2011 - Carpi (Mo) - Kalinka

09/12/2011 - Bolzano - Halle 28

10/12/2011 - Mezzago (Mi) - Bloom

28/10/11

Le attese ristampe dei Throbbing Gristle!


Per la prima volta in 30 anni i Throbbing Gristle fanno ritorno alla loro etichetta madre, la Industrial Records. Un evento celebrato da una serie di ristampe che rende finalmente giustizia all’opera pionieristica della formazione inglese, una delle realtà più anticonformiste di tutto lo showbiz occidentale. L’occasione è ghiotta, i primi cinque album della band costituita da Chris Carter, Cosey Fanni Tutti, Genesis P-Orridge e dal compianto Peter ‘Sleazy’ Christopherson, rivedono la luce in versioni extra-lusso. Disponibili in ambo i formati, i lavori sono stati rimasterizzati secondo la tecnologia 24bit dallo stesso Carter che ha utilizzato come fonti gli originari nastri analogici.

Nuova vita dunque per ‘Heathen Earth:The Live Sound of Throbbing Gristle’, ‘20 Jazz Funk Greats’ , ‘D.O.A. The Third And Final Report Of Throbbing Gristle’, ‘The Second Annual Report Of Throbbing Gristle’ e ‘Throbbing Gristle's Greatest Hits’.

Tutti i vinili sono disponibili nel formato 180 grammi, con la riproduzione meticolosa degli art work originali, avendo potuto attingere al materiale dell’archivio Industrial Records. Ogni album contiene un esclusivo booklet di 8 pagine, comprendente contributi scritti d’epoca ed un considerevole numero di foto inedite. Ogni uscita è limitata a 2000 esemplari.

Per quello che riguarda i cd il programma è ancor più interessante. Confezione apribile con contenuti diversi per i libretti che accompagnano ogni ristampa. Ogni cd contiene un secondo disco di extra che è proprio il tocco in più che suggella l’intera operazione. Raccogliendo le numerose testimonianze dal vivo ed i singoli – qui presenti in versioni alternative - i contenuti si fanno davvero fitti ed omnicomprensivi, dando un valore stellare all’intera campagna. Anche il Greatest Hits contiene due inediti mix degli anni ’80. Motivo in più per rinnovare la discografia dello storico quartetto formatosi nella metà degli anni ’70 a Londra.

King Midas Sound - Without You (Hyperdub Records)


Dopo aver praticamente ridefinito i confini tra dubsteb e trip-hop con un disco di debutto dalle tinte fosche - che in alcuni casi ha portato a paragoni importanti con Tricky – il trio allestito dal veterano Kevin Martin torna con un album di remix, che ne sposta ulteriormente il bacino d’utenza. Forte della sua lunga militanza negli ambiti dell’elettronica di ricerca e della club culture meno ossessionata dai ‘numeri’ e dalle masse, Martin trasforma Waiting For You in Without You, un nuovo parto discografico a tutti gli effetti. Impiegando artisti così diversi, il progetto assume nuovi connotati tanto che gli stessi strumentali originali vengo reinterpretati con piglio da inediti vocalist.

Nel dettaglio ci si esalta per il lavoro di fino del nuovo eroe di casa Planet Mu Kuedo, che apre con il vibrante valzer elettronico di ‘Goodbye Girl’, prima che D Bridge con il suo grazioso falsetto ingentilisca le note di ‘Blue’destinata a cambiar titolo nella title-track del nuovo disco

Il remix di ‘Lost’ curato dall’asso losangeleno Flying Lotus, diviene uno stravagante numero da dancehall, mentre è più meditativa la versione dello stesso brano ad opera dell’eroina witch house Nite Jewel, che lo trasforma in un numero a mezza via tra funk sintetico e colonna sonora di un videogioco della Arcade. I Gang Gang Dance si superano in una versione al fulmicotone di ‘Earth A Kill Ya’, mentre Rob Lowe, meglio noto come Lichens e collaboratore di Om, lancia ‘Goodbye Girl’ in un vortice minimalista di sintetizzatori modulari. Non meno affascinante l’ingresso di Joel Ford (del duo Ford And Lopatin) che canta in maniera nitida una ‘Say Something’ che si trasforma in primizia new wave. E se vi dicessimo che il buon vecchio Green Gartside – in arte Scritti Politti – ridà incredibilmente voce a 'Come And Behold' ? Credereste nell’ulteriore miracolo?

Il punto è questo, Without You può essere a ragione considerato il nuovo album di Kevin Martin, che forte di collaborazioni così importanti rivede la sua opera recente, reclamando lo scettro di producer elettronico dell’anno. Ancora una volta.

Dead Skeletons - Dead Magick (A Records)

Jón Sæmundur, Henrik Björnsson e Ryan Carlson Van Kriedt rappresentano la tipologia di rocker scontrosi e misteriosi, gente che magari ama nascondersi dietro una coltre di ghiaccio secco anche alle porte del club di provincia. Di loro si è presto invaghito un altro personaggio noto per il suo carattere ‘forte’, Anton Newcombe, non solo tenutario di A Records, ma anche deus ex-machina dell’istituzione californiana Brian Jonestown Massacre.

La via minimalista al rock’n’roll di questa formazione nord europea ha del fenomenale. Lo schema impone la ripetizione, ma dimenticate pure tutte le facezie del nuovo shoegaze, perché i ragazzi hanno un piglio davvero nervoso e non sono necessariamente in vena di convenevoli. In poche parole, i fiori del vostro piccolo orto sono seriamente a rischio. Essendo il loro approccio musicale molto prossimo ad una vera e propria filosofia di vita, il consiglio unanime è quello di fruire integralmente della loro opera. Questi islandesi non prendono prigionieri e la loro matrice sonica tradisce influenze importanti. Dai Grateful Dead ai Black Sabbath, passando magari per certe inquietanti formazioni proto-punk australiane o per le più oscure bande della wave newyorkese.
Non c’è nulla di accomodante nel loro sound, tanto che questo Dead Magick pare un commento a latere sulla fine dei nostri tempi. Una danza propiziatoria sulle macerie della cultura occidentale, con il rock’n’roll che diviene intrattenimento macabro, incorreggibile.