28/11/13

Daniele Sepe: Viaggi Fuori Dai Paraggi




Molti nemici, tanta fatica. Forse si potrebbe partire da questo assurto per provare a raccontare Daniele Sepe con la speranza che partendo da quello che più gli è ostile, forse si riesca a dargli miglior definizione e a farlo conoscere con compiuta precisione descrittiva. Chi sono i nemici ideali di Daniele Sepe? I propugnatori di un ordine diffuso e rassicurante. Quelli che fanno le scatole e le riempiono dopo aver scritto sul coperchio cosa conterranno. Gli aristotelici classificatori del presente e di tutti i tempi, che ogni epoca s’è dovuta misurare con la nevrile attitudine di certi a spiegarti che c’è sempre una regola da rispettare, dicono proprio così, un criterio di riferimento, un metro campione. Quelli che hanno bisogno dell’archetipo, di una matrice prima a cui riferirsi, di un Linneo che governi il loro mondo che si ferma sempre un palmo prima del davanzale della finestra. Per scoprirli questi propugnatori dell’ordine universale, delle file di femmine e delle file di maschi, dei confini di stato e delle lingue ufficiali, basta passargli davanti con un libro o un disco. Non vi chiederanno mai cosa racconta, che suoni si porta addosso, ma preferiranno piuttosto chiedervi ragione del genere. Per loro in musica esistono le cose jazz e le cose blues, il folk e la classica, il reggae e il madrigale. Così in letteratura vivono nella certezza che esista la fantascienza e il fantasy, lo storico e il classico, l’horror e il generazionale. Ma l’apoteosi è la sintesi attraverso la critica cromatica, da loro potentemente elaborata, che li ha spinti a distillare una definizione di genere che passa dal rosa al nero e poi ancora il giallo. Quella trovata dei colori è geniale e azzera qualsiasi tentativo di legare definizione a contenuto. La morte loro insomma. Ecco, quelli che trovano rassicurazione nella definizione di genere e nel casellario emozionale, una volta al cospetto di Daniele Sepe e del suo percorso musicale rischiano un serio blackout, un embolo che sale rapido a scoppiargli nelle rare idee.

Danni permanenti e variati ma quel che è peggio disordine ingovernabile su tutto. Perché il maestro napoletano dentro un recinto non ci sa stare e ha piegato alla ragione della sua musica l’idea che nostra patria è il mondo intero, e forse già guarda all’universo tutto come a una bella possibilità. Canzoni da tutti i luoghi, lingue vivissime e idiomi resuscitati per l’occasione, danze e marce e processioni, classica e jazz, finanche il punk e le chitarre distorte, questo e molto di più contribuisce alla costruzione di quella ideale biblioteca sonora d’Alessandria che si cela nelle tracce della corposa produzione discografica di Sepe. Senza tregua, sempre mosso da nuova passione e sempre pronto a rinnovare quel maledetto binomio, patto scellerato tra arte e passione politica. Perché la musica, tutta la sua musica, pare mossa dal potente motore emotivo che a ogni strappo furioso ci ricorda che ribellarsi è giusto e sacrosanto. Partendo dalle canzoni popolari che sono il segno di una maledetta fatica, del fardello che i più deboli sempre si sono visto assegnato tra le spalle e il collo, tra i sogni e la necessità. Canzoni che offrono il petto al tiranno e cantanti che muoiono con le mani spezzate nei corridoi bui di uno stadio cileno. Balli, che nella gioia c’è la forza migliore, e struggenti canti d’amore. Tutto contribuisce a definire questa nozione della storia e della memoria che la musica ha la possibilità ma anche il dovere di veicolare, di raccontare. Canzone come narrazione efficace che assegni attenzione speciale alle cose minime, a quell’umanità defilata, mai registrata dagli archivi istituzionali, dai manuali di storia di regime, se non attraverso la compitazione dei morti dopo la guerra.


Raccontare la musica con il limite delle parole finisce per restituire un corpo mutilo e l’ascolto, quel lasciare che le note si levino e riempiano le nostre stanze e il nostro presente migliore, è l’unico modo di rendere giustizia al lavoro di Sepe. Poi troverete nei suoi dischi e in rete la  vita narrata da lui medesimo e le botte in piazza e tutto quel repertorio infinito di storie minime che da sole sarebbero buone a riempire le pagine dei romanzi migliori. E allora Daniele Sepe poserà il suo sassofono, e tutti gli incredibili strumenti che frequenta da sempre, con il suo diploma in flauto al conservatorio e quegli anni passati a sopravvivere suonando in studio con tutti, e racconterà. Vi parlerà magari di Nico Casu che di giorno incontrava in piazza e erano mazzate, Sepe dalla parte che possiamo immaginare e quell’altro con la divisa e il manganello, e di sera ritrovava per suonare e invitava a cena da sua madre. Scopriremo che Auli Kokko, quella voce incredibile che è parte integrante dell’opera di Sepe, l’ha conosciuta mentre registravano per Fred Bongusto e che la stessa, svedese di origini lapponi, rinunciò a una carriera remunerativa con la musica commerciale per dedicarsi a quell’esplorazione del mondo attraverso la canzone che ora questa raccolta antologica testimonia. O quando fece salire sul palco Oreste Scalzone ad arringare il pubblico con accompagnamento musicale, procurando un attacco di bile agli organizzatori del concerto. Una vita difficile, ma piena di soddisfazioni. Di sicuro è quasi impossibile comprimere in due album, anche se generosissimi, quasi 25 anni suonati, ma questa scelta è soprattutto una testimonianza efficace, libera e sonora di una vita di musica. Più che continuare a parlarne conviene passare all'ascolto.

La nota all'album di Giorgio Olmoti






Cocoanut Groove: Svezia mon amour




How to Build a Maze è il secondo album di Cocoanut Groove, band scandinava capitanata da Olov Antonsson. Si tratta anche della prima pubblicazione ufficiale per la nuova formazione estesa, dopo che ‘Madeleine Street’ del 2008 rappresentò poco più dell’estensione di un progetto solista. Direttamente dal nord della Svezia, Antonsson indossa senza timori reverenziali le sue tipiche influenze sixties: un pop barocco con tracce dei tardi Smiths e degli idoli Clientele, oltre ad una lodevole fascinazione per il folk brumoso di Vashti Bunyan e Nick Drake.

Scritte durante un lungo periodo di tempo, le canzoni che compongono How To Build A Maze puntano ad una perfezione formale che possa rinverdire la grande stagione del pop anni ’60. La finalità è quella di avvicinare capolavori consolidati come ‘Beechwood Park’ degli Zombies o ‘World Of You’ degli Aerovons. Ferme restando alcune puntuali melodie folk svedesi che si affacciano in maniera discreta all’interno del disco.  Registrato in numerose location nella città natale di Umeå, il disco parla di esperienze strettamente personali, riflettendo a lungo sul significato di perdita. Dagli amici che si allontanano alle stagioni che volgono al termine, il tutto in un carezzevole susseguirsi di melodie e partiture soavi.

Il nome della band arriva direttamente da una canzone dei Lovin' Spoonful scritta da Roger Nichols Olov ha composto tutti i brani del disco oltre a suonare la chitarra, il basso ed il pianoforte. Nel corso degli anni – ed in particolare per questo disco – è stato aiutato da Calle Thoor, Anton Runesson e William Andersson (batteria), Josef Ringqvist (basso), Mattias Malm (chitarra, tastiera, voci, arrangiamenti, percussioni), Ivar e Gunnar Lantz (archi) e Frida Danielsson (tromba). Cocoanut Groove si inserisce nel solco della grande tradizione indiepop svedese, con grande puntualità, rispettando una bellezza di fondo, sfiorata da una dose sussidiaria di malinconia.



Sharon Jones: soul suvivor





Sharon Jones ha forse vinto la sua più grande battaglia. L’essersi affermata come regina contemporanea del soul, dopo anni di certificata gavetta, non è stata l’unica impresa della nostra beneamata. La scorsa primavera Daptone annunciava la pubblicazione per il mese di agosto di ‘Give The People What They Want’, nuovo album da studio di Sharon Jones & The Dap Kings. Appena il tempo di redigere il relativo comunicato stampa ed inviare qualche file in streaming che puntuale arriva la smentita. Nessuna considerazione di carattere commerciale, solo un evento eccezionale, nella sua gravità. Alla Jones viene diagnosticato un tumore, tutti gli sforzi dell’etichetta e dei suoi sodali d’ora in avanti saranno dedicati alla cura del terribile male.

Disco e relativo tour internazionale vengono rinviati a data da definirsi. Dopo un’operazione conclusasi con successo e relativa riabilitazione, la cantante è pronta a promuovere non solo il nuovo disco, ma ad imbarcarsi anche nel tour che nella primavera del 2014 darà la giusta visibilità al nuovo materiale. Grazie al supporto continuativo e all’amore di amici e familiari, Sharon è di nuovo tra noi. Maestra di cerimonie in un rituale che vuole il ritmo al centro del villaggio, ci regala uno dei suoi album migliori per l’etichetta di Brooklyn, un trionfo di ritmi r&b e magnetiche ballate soul. Impeccabile la scelta dei brani, a partire dal trascinante primo singolo ‘Retreat!’, che apre le danze con toni solenni, inseguendo la metrica di alcuni dei più classici brani di repertorio Stax e Motown.

Il senso di appartenenza è tutto. La comunità soul è unica e grande, da qui il titolo profetico dell’album, in uscita il prossimo 14 di gennaio. Sarà un’inaugurazione col botto, ne siamo certi.




27/11/13

Secret Chiefs 3: Book Of Souls Folio A





Gli ascoltatori sono abituati ad aspettarsi molto dai Secret Chiefs 3. Per ‘Book of Souls’, secondo volume in una mega-trilogia inauguratasi nel 2004 con ‘Book of Horizons’, le loro speranze non verranno certe disattese. Fedele alle promesse ‘Book of Souls: Folio A’ è un disco talmente ricco di contenuti musicale da sfiorare il sapere enciclopedico. Sono occorsi quasi 10 anni per la sua messa a punto, nessuna sorpresa dunque nell’affrontare un’opera superlativa, composita, capace di sfidare le avversità della musica d’avanguardia e contemporanea, sfregiare il crossover rock, dialogare in maniera consensuale con l’etno-world e primeggiare anche nella filosofia exotica. Un disco che ha più case, essendo stato concepito in numerosi studio a cavallo tra est ed occidenti degli Stati Uniti d’America. Dalla natia San Francisco a New York, passando per Los Angeles, Seattle ed approdare addirittura in Inghilterra e Francia. Il leader Trey Spruance ha messo insieme un’autentica armata di musicisti. Un team che in termini fumettistici potrebbe essere assimilato agli Avengers!

La squadra prevede alcuni dei migliori interpreti del nuovo rock d’avanguardia Americano, assieme ad alcune leve del jazz logicamente più prossimo alla sperimentazione. Timb Harris (violinista e collaboratore di Fred Frith, Alvin Curran e Sunn O)), il batterista-extraordinaire Ches Smith (Marc Ribot, Tim Berne), Shahzad Ismaily (bassista che ha suonato con mezzo mondo, da Fred Frith a Carla Bozulich, passando per Marc Ribot ed il Badawi Quintet) , Anonymous 13, Danny Heifetz (Mr.Bungle) e William Winant (uno dei più grandi percussionisti viventi, già a lavoro sull’opera di Stockhausen). Ci sono poi i più fedeli collaboratori dal vivo - Matt Lebofsky, Kenny Grohowski e Toby Driver – ad aggiungere extra linfa ad un disco di per sé magniloquente. Il fatto stesso che John Zorn abbia loro consegnato il nono volume della serie Book Of Angels (disco pubblicato per Tzadik nel 2008) è esemplificativo. 

Pochi dischi saranno capaci di rapire il vostro immaginario in coda a questo 2013, il nuovo Secret Chiefs 3 riesce nell’impresa coniugando il sacro al profano, sposando contemporaneamente Esquivel, il morriconiano Gruppo D’improvvisazione Nuova Consonanza e la Kocani Orchestra.





Jóhann Jóhannsson: The Miners’ Hymns




‘The Miners’ Hymns’ è una collaborazione tra il regista americano Bill Morrison ed il compositore islandese Jóhann Jóhannsson che, attraverso immagini e musica, hanno creato un documentario strepitoso capace di descrivere in maniera approfondita la storia  di una sfortunata comunità di minatori con base nel nord-est dell’Inghilterra. Raccogliendo filmati d’archivio principalmente dalla BFI e BBC, ‘The Miners Hymns’ celebra gli aspetti sociali, culturali  e politici di un’industria in via d’estinzione, unitamente alla fortissima tradizione regionale delle brass bands.

Siamo nel bacino di Durham, il film è strutturato attorno ad una serie di attività che includono  il durissimo lavoro di scavo, il ruolo della Trade Union nell’organizzare e reclamare i diritti dei lavoratori, l’annuale galà degli stessi e gli ormai storici scontri con la polizia durante lo sciopero del 1984, quando le politiche aggressive del governo Thatcher avevano in pratica sancito la dismissione delle industrie di carbone.

Tra le numerose immagini d’archivio – si attinge ad oltre 100 anni di radicate tradizioni – si passa dalle granulose riprese che riportano le condizioni primitive degli inizi dello scorso secolo fino al processo crescente di meccanizzazione, toccando punte emotive con lo sciopero dei minatori di metà anni ’80. Composto quasi integralmente da riprese in bianco e nero, il documentario presenta due sequenze contemporanee, filmate a colori a bordo di un elicottero che sorvola gli antichi siti delle miniere di carbone. E’ paradossale come molti di questi luoghi siano stari resi invisibili, in particolare dopo il sorgere dei centri commerciali che rappresentano le nuove mecche del consumismo. Un lavoro di grande importanza storica, impreziosito dalle musiche di Jóhannsson, che elabora un commento ai confini della classica contemporanea, capace però di recuperare quell’elemento bandistico tipico proprio del folklore del nord-est inglese. Il disco è stato registrato presso la Cattedrale di Durham nel settembre 2010 sotto l’attenta regia del conduttore Gudni Franzson. Il lavoro solerte di un’orchestra composta da fiati, organo e percussioni è poi esaltato dall’elaborazione alle elettroniche dello stesso Jóhannsson.